I problemi posti dagli attuali scenari culturali, etici e biologici ci sfidano verso la comprensione di nuove realtà, creano nuove patologie e nuovi disagi o danno un nuovo volto ai vecchi disagi.
Nuove famiglie o meglio nuove configurazioni familiari come le coppie di fatto, le famiglie monoparentali, le famiglie ricostituite, le famiglie miste per religione o razza, le famiglie con adozioni internazionali, le famiglie con uno o più bambini nati da fecondazioni artificiali, le coppie omosessuali, le adozioni effettuate da coppie omosessuali, i cambiamenti di genere sessuale, le patologie da internet, le nuove forme di socializzazione telematica, queste e altre ancora sono le realtà nuove con cui come psicoanalisti familiari e di coppia ci confrontiamo.
Molte sono le prospettive per comprenderle. Abbiamo bisogno di nuovi strumenti o perlomeno di aggiornare quelli che ci hanno sostenuto fino a questo momento.
I cambiamenti di struttura e di identità pongono certo nuove e urgenti problematiche, ma costituiscono la nostra realtà attuale e di questo dobbiamo prendere atto, senza negare che tali trasformazioni se da una parte hanno causato l’emergenza di nuovi problemi, dall’altra hanno anche apportato benefici effetti.
Le nuove forme familiari sono anche caratterizzate da processi complessi e non automatici, che richiedono tempi propri e specifiche risorse. Sono state naturalmente rimesse in discussione le classiche organizzazioni di famiglia che spesso nel passato erano basate su modelli relazionali precostituiti e orientati dalle convenienze sociali e da esigenze normative o morali. Nuove motivazioni si sono fatte strada per orientare la scelta consapevole del partner come l’affettività nel legame, il desiderio di sperimentare se stessi in modo autonomo, e al di fuori di influenze culturali o istituzionali o religiose e una relazionalità spontanea. “… Giddens (1991) ad esempio sottolinea il carattere di crescita creativa potenzialmente insito nella famiglia ricostituita e secondo questo autore, i rapporti che si instaurano tra persone che non hanno legami di consanguineità hanno le caratteristiche delle così dette “relazioni pure” tipiche dell’età moderna … La ricerca della relazione pura nasce, cioè, dal bisogno di costruire un rapporto centrato sullo scambio reciproco, sulla possibilità di criticare costruttivamente le interazioni in atto, sulla base di (www.psychomedia.it/pm/grpind/separ/scheda34.htma proposito del 3° Rapporto Nazionale Eurispes-Telefono Azzurro sulla Condizione dell’Infanzia e dell’Adolescenza).
Tutti questi elementi mettono il fuoco sulla centralità delle scelte soggettive. Non più legami di sangue o obblighi istituzionali ci costringono nella maggior parte dei casi. Questo ha naturalmente il suo contraltare in certe forme di frammentazione familiare, come le ripetute separazioni coniugali, le famiglie pluriricostituite, che pure per converso possono rappresentare una risorsa sostitutiva nel caso di carenze genitoriali, laddove ad esempio il nuovo compagno di uno dei genitori può svolgere una funzione genitoriale vicaria, carente nella coppia originaria.
Se la soggettività del singolo nel bene e nel male è divenuta cruciale nell’orientare le scelte, non possiamo dimenticare che ogni scelta diventa, se consapevole, frutto di un intenso lavorio trasformativo, della creazione di nuovi aspetti di identità e che ogni scelta è anche al crocevia di ambivalenti e contraddittorie motivazioni.
Un caso clinico
In ogni caso faremmo a questo punto un grosso errore se ci travestissimo da filosofi, sociologi o moralisti perdendo la nostra specificità clinica. Di fatto quando il paziente, sia esso adulto o bambino, individuo, coppia o famiglia o gruppo o istituzione varca la nostra porta, entra a far parte di quel magico quadro creato da Freud che è il setting.Il setting ci permette di fermare il tempo, ma soprattutto istituisce una cornice di riferimento entro la quale dare significato alla soggettività e alla sofferenza di ciascuno.
Partirò perciò da una storia clinica per fare alcune riflessioni dato che la clinica è il terreno di base per la nostra comprensione dei fenomeni. Racconterò perciò la storia della sofferenza di una coppia di genitori, in particolare di una madre che ha effettuato una fecondazione artificiale.
Questa storia clinica come altre che riguardano l’adozione internazionale o le famiglie multietniche possono apparire diversissime, ma sembrano alla fine accomunate in un punto specifico: il tema dell’accoglimento dell’alieno, della necessità di affiliarlo e infine il tema del profondo perturbamento dell’identità che questi eventi hanno comportato. Perché è questo in effetti il punto cruciale: tutte queste nuove configurazioni sociali-psicologiche-biologiche ci sfidano ad un nuovo concetto di identità e mettono in discussione il concetto di identità a cui siamo abituati.
Devo forse a questo punto specificare che non parlo di identità dal punto di vista filosofico, ma vi faccio riferimento come comunemente in clinica essa viene valutata e cioè “la capacità di riconoscersi nel corso del tempo e nello spazio, ritrovando una propria continuità”.
Gloria è molto angosciata. Sta in una situazione di allarme. Viene alla seduta accompagnata da Guido, il marito. Ambedue sulla quarantina, eleganti ed intelligenti, raccontano la loro storia familiare e matrimoniale. Una storia relativamente serena fino ad oggi. Il problema è che nove mesi fa Gloria e Guido hanno avuto un figlio, il loro unico figlio dopo una gravidanza tanto cercata e faticosa.
Guido, molto pragmatico, capisce poco di quanto sta accadendo. Vorrebbe essere di aiuto alla moglie, ma non sa come fare.
Gloria racconta il suo sogno di questi ultimi giorni, ma commenta che per certi contenuti è abbastanza ripetitivo. “Avevo partorito il mio bambino”, Gloria dice. “Avevo accanto a me uomini e donne i cui volti non ricordo o erano confusi. Doveva essere una specie di struttura ospedaliera. C’erano molte macchine, una luce artificiale e mi sembra che quelle persone avessero strani camici. Guardavo il mio bambino e sentivo la voce di mia madre che mi chiedeva a chi assomigliava, forse a mio marito? – mi chiedeva. Ma io sapevo che non era vero. Cominciavo così a cercarlo perché Tommy, il bambino, era sparito. Percorrevo le stanze di un edificio che era un labirinto, ma ogni volta che avevo l’impressione di ritrovare Tommy mi accorgevo che non era lui”.
“Non posso spiegarle dottoressa quanto è angoscioso questo sogno per me”, Gloria mi dice. E ripercorrendo le varie associazioni che i coniugi portano ricostruiamo in seduta l’avventura della sterilità che la coppia ha tanto sofferto per cause sconosciute e poi i successivi tentativi e indagini mediche per venire a capo della situazione. E alla fine il bambino nasce per fecondazione artificiale. Gloria ha deciso all’ultimo che non si sarebbe chiamato con un nome di famiglia, come aveva fantasticato all’inizio del matrimonio per un loro eventuale figlio. Tommaso, detto Tommy, era invece il nome di un personaggio di un film visto alla televisione. Guido ricorda tutto l’iter per arrivare alla gestazione e parla del loro desiderio di avere figli, come per altro aveva la sorella più grande di lui che andava molto fiera dei suoi tre figli, nati uno dopo l’altro.
Mentre la coppia mi racconta queste cose, la mia mente va a questa ricerca nel labirinto. Mi ritorna in mente il mito di Arianna nel labirinto, il suo incontro con il Minotauro, metà uomo e metà animale, quell’incrocio che in genetica si definisce chimera.
Se lasciamo parlare i nostri pazienti, essi ci raccontano molto di più di quanto la migliore delle descrizioni ci possa dare.
Gloria ad esempio ci racconta la sua angoscia e il suo turbamento nell’incontrare questo bambino estraneo, che non sa riconoscere nella catena generazionale (non gli può dare infatti un nome familiare) e sente quasi figlio di una dimensione artificiosa e irreale (gli dà infatti il nome di un personaggio di un telefilm televisivo, mai esistito tranne che sullo schermo). Questa estraneità la turba, come madre non sa riconoscerlo (sua madre le chiedeva a chi somiglia, ma lei non lo sa), ed è quindi persa in questo labirinto di proiezioni ed identificazioni. Ma il labirinto rimanda, nella mia fantasia, all’incontro con il Minotauro, che è al contempo la rappresentazione di qualcosa che è misterioso e profondo dentro la mente di ognuno di noi, metà uomo, metà animale, metà ragione, metà istinto. Nello stesso tempo esso mi sembra l’incontro perturbante con un artificio medico che ha tanto condizionato fin dalla sua origine l’#39;esistenza di questo bambino.
Le statistiche ci dicono che i bambini nati dalla FIVET non hanno una maggiore percentuale di alterazioni genetiche, malformazioni o malattie, né che i genitori che usano questa metodica hanno un tipo di patologia specifica, fatta eccezione degli aspetti di lutto per non aver potuto avere un figlio proprio e una certa ansia intorno all’evoluzione della gravidanza, ansia per altro più che giustificata dalle percentuali di fallimento della metodica.
Come allora comprendere questo improvviso turbamento? Questo senso di estraneità? Questo rifiuto di collocare il bambino all’interno della catena generazionale, consentendogli di prendere parte di quell’identità familiare che per prima forgia la personalità, accanto al desiderio e allo sguardo del genitore?
Che cos’è la genitorialità
Per affrontare questo discorso bisogna forse brevemente accennare a cosa è la genitorialità. Malgrado essa sia un concetto molto presente nella vita di tutti i giorni, perfino usurato, non è per niente ovvio. A differenza di quanto pensa molta letteratura romantica, essere genitori ha a che fare con un lavoro, “un mestiere” diceva Winnicott, e diventare genitori è un processo di trasformazione dell’identità.
La gravidanza non è solo un evento fisico, è un evento psicologico che consente un processo complesso di preparazione per il bambino nascituro di uno spazio fisico e psicologico che è al contempo nella mente dei genitori e nella famiglia allargata. Essa innesca anche un complesso processo di affiliazione, fatto di fantasie, proiezioni, desideri individuali e gruppali che sono cominciate anche prima del concepimento biologico e si traducono nella pratica nella condivisione delle aspettative tra i coniugi e con i nonni o la famiglia in generale. Costruire il corredo per il bambino, preparargli la stanza, immaginare un nome, preparare i festeggiamenti e tutte quelle complesse operazioni che portano all’organizzazione dei riti sociali di ingresso nella micro-società che è la famiglia (ad esempio il battesimo o altre simili) sono tutte operazioni concrete che innescano, aiutano e testimoniano di questo lavoro psicologico.
Parecchi autori ci hanno aiutato a capire che ci sono tanti bambini nella mente dei genitori.
Selma Fraiberg distingue tre bambini del desiderio: quello della mente che è l’equivalente del bambino fantasmatico di Lebovici, un bambino cioè figlio dei fantasmi inconsci dei genitori; il bambino del cuore, che coinvolge invece il progetto affettivo dei genitori e delle loro famiglie di origine; e infine il bambino reale, che con la sua nascita e la sua presenza concreta rimette in discussione i primi due e ne comporta il ridimensionamento e la disillusione.
Genitorialità è un processo complesso che si acquisisce grazie ad un lento lavoro di elaborazione del singolo e della coppia. “Lagenitorialitànon è pertantostrettamentecorrelatacon l’organizzazionedella personalità di un solo soggetto,ma è invece una funzione molto complessa alla cui costruzione contribuisconosia il genitore che il figlio,e sicuramenteattienealla coppia dei genitori e non ad uno solo di essi. Essaèsia una funzione della mente chel’espressione dell’interazionetradue o più personesolitamente(manon sempre) identificate nella coppia dei genitori nell’ambito di una famiglia nucleare.Questa funzione perciò non è omologabile al ruolo corrispondente dentro una famiglia.Non è detto, in altre parole,chein una famiglia la funzione genitoriale siasvolta dalle persone che per ruolo sociale sono preposte a questo compito. Può invece essere ritrovata altrove, in altri membri o nella famiglia nel suo insieme. Così anche le funzioni materna o paterna che costituiscono aspetti in cui si declina la genitorialità. Queste ultime non sono mai un prodotto individuale,mainvece l’espressione di un’interazione complessa che si evolve e si modifica nel tempo, determinando così progressivi mutamenti esterni ed interni.Sul piano della realtàesternaciascuna funzione è influenzata da quella complementare corrispondentesvoltadall’altro partner edallarispostadi ciascun figlio a seconda della fase del ciclo vitale.Ci sono, ad esempio,modelli genitoriali funzionanti per bambini piccoli,ma insufficientio inadeguati in adolescenza.Ci sonofigliche cimentanoin modo particolare i loro genitori e liinduconoin confusione o altri bambini capaci invece di resistere agli attacchi intrusivi che subiscono” (Nicolò, 1994, p.31). Dal punto di vista della distinzione tra i tre bambini di cui ci parlava la Fraiberg, il processo per diventare genitori comporta un doppio lutto: sia una rinuncia a vedere il bambino solo in se stessi perché c’è un bambino reale nuovo nato, sia il ridimensionamento del bambino fantasticato e immaginario, il bambino della mente e del cuore della Fraiberg a favore del bambino reale, meno ideale ma presente.
Qualsiasi bambino rappresenta una parte del sé del genitore, una parte del partner, ma anche un oggetto nuovo, altro da sé che per questa sua quota estranea diventa straniero e perciò perturbante.
Questo bambino reale attiverà inoltre una trasformazione straordinaria che riattualizzando le tematiche edipiche, consentirà il superamento dei fantasmi di fusione con i propri oggetti parentali, che hanno trovato nella fusione della coppia coniugale una prima tappa evolutiva. Per certi versi potremmo dire che avere un figlio ci libera dai nostri genitori e avere un figlio ci matura, perfezionando quell’identità personale e di genere che da sempre abbiamo cominciato a costruire. Avere un figlio poi cimenta e modifica l’essere coppia coniugale perché inserisce la coppia nella continuità generazionale, recupera il valore e il senso dei nonni, riequilibra la coppia quando è troppo centrata narcisisticamente su se stessa. Oggi poi avere un figlio assume un significato diverso dal passato, dagli investimenti che ad esempio i nostri stessi genitori facevano sulla loro prole. Il bambino della famiglia di oggi è il punto di arrivo di un investimento impegnativo e spesso tardivo nell’età del genitore, talora è l’unicogenito che deve ricevere il massimo, talora è idealizzato e su di esso pesano alte richieste, ma proprio nel suo essere idealizzato è non visto, frainteso.
l lavoro per diventare un genitore sufficientemente buono è perciò un processo complesso che (basato su identificazioni con le proprie figure genitoriali, e sulla capacità di assumere le parti genitoriali proiettate dal partner), non attiene solo all’amore narcisistico per il figlio,come affermava Freud.
Ha molto di più a che fare con disciplina e misura, con processi di accoglimento, contenimento, ma anche de-accomodamento del figlio nel corso del ciclo vitale. Ha più a che fare con abnegazione, protezione, capacità di individuare e rispecchiare i bisogni del bambino e mettersi in contatto con essi, piuttosto che l’amore sic et sempliciter. Presuppone cioè un lento processo di rinuncia narcisistica temporanea e strumentale, prima a se stessi (nella cura di sé bambino) poi al figlio che cresce e si allontana.
Tutti questi aspetti ristrutturano l’identità, possiamo perciò dire che si diventa genitori progressivamente e che l’essere genitori ci modifica come persona.
Tutto questo non è ipso facto sovrapponibile con “l’avere un bambino”.
Alcune persone hanno figli, ma non avviano un processo che li genitorializza, che modifica perciò la loro identità in questo senso.
Questa distinzione tra avere un figlio ed essere genitore è molto importante perché nelle situazioni più patologiche è il primo aspetto che prevale. E’ perciò questo il primo livello ove a mio avviso dobbiamo orientare il nostro intervento.
Il bambino nella procreazione assistita
Per illustrare cosa avviene nella mente dei genitori e nei processi relazionali e interattivi che sottendono l’evento della procreazione assistita, dobbiamo forse accennare ai processi emotivi che conducono i genitori a questa scelta complessa, a ciò che è avvenuto cioè intorno alla sterilità e come questa è stata vissuta.
Anche se può sembrare un dato generico, non possiamo fare a ameno di ricordare che la sterilità comporta come conseguenza una perdita e un lutto rilevanti, causa a volte di disturbi depressivi. Tale lutto non riguarda solo il bambino, riguarda molto una parte di sé sentita come danneggiata e distruttiva verso il sé, verso l’altro nella coppia, verso la coppia stessa, oltre che verso la famiglia e la sua continuità generazionale.
Se consideriamo i casi di sterilità sine causa, questi casi ancora molto misteriosi nella loro etiologia, che pure costituiscono circa il 20% di tutti i casi di sterilità, sappiamo che una gran parte di essi è di natura psicosomatica, per un rifiuto inconscio alla procreazione o un attacco inconsapevole ai propri genitori edipici o un attacco al partner e all’accoppiamento.
Questo tipo di sterilità è un disturbo psicosomatico fondato su una difficoltà di pensare, simbolizzare e rappresentare conflitti primitivi di vario genere e livello, che riguardano sia il mondo interno del singolo che il legame profondo della coppia, quell’interfantasmatizzazione tra i partners che fonda il loro funzionamento affettivo.
Questo “interdetto psicosomatico a generare”, per usare l’espressione felice di Nunzante Cesaro, può essere naturalmente prodotto da molte cause, l’esame delle quali prescinde dal nostro lavoro. Dobbiamo invece ricordare le caratteristiche attuali del funzionamento della coppia che rendono più difficile l’accettazione della sterilità e collocano il bambino figlio della procreazione assistita in un terreno particolare.
L’attuale capacità di effettuare un controllo della nascita ha certo risolto moltissimi problemi sociali e ha ridato una grande libertà alla donna e alla coppia nella gestione della sessualità. Ha creato anche però una netta divaricazione tra la donna sessuale e la donna materna, tra la sessualità e la procreatività che in casi estremi diventa problematica. Possiamo dire con abbastanza certezza oggi che,grazie alla diffusione a larghi strati della popolazione dei mezzi contraccettivi, una donna che resta incinta, consciamente o inconsciamente ha voluto il bambino. Tale divaricazione tra sessualità e procreatività è accompagnato da un senso di onnipotenza, e dal vissuto di assenza di quel limite da cui nasce il contatto con il reale.
La coppia sterile che si rivolge alla fecondazione artificiale ha spesso con sé la fantasia onnipotente che produrre bambini, programmarli, decidere della loro nascita è un’esperienza facile, di cui è facile entrare in possesso.
Il fallimento nell’esperienza di avere figli diventa perciò tragico perché alle problematiche primarie già complesse che portano all’interdetto somatico alla procreazione, si aggiunge il crollo narcisistico dell’onnipotenza.
Il ricorso successivo alle cure mediche è caratterizzato poi da un iter complesso, che da una parte sollecita le fantasie onnipotenti che attraverso le cure mediche tutto sarà possibile, dall’altra accentua il divario tra sessualità e procreatività oltre che tra il generare un figlio e diventare genitori.
Due aspetti problematici peseranno così sulla nascita psicologica di questo bambino e sul processo di genitorializzazione della coppia, su quel lento e sofferto lavoro per diventare genitori che ognuno fa anche prima della nascita di un figlio.
Il bambino che nasce in queste condizioni è per certi versi simile al bambino adottato, ha bisogno di essere in un certo modo simbolicamente affiliato, dato che alla sua origine non c’è stato un rapporto sessuale, ma un atto medico che nell’espropriare la maternità dalla sua origine nella sessualità ha espropriato in parte il corpo della madre e anche del padre dalla sua parte affettiva e ha perciò espropriato il bambino dal suo genitore.
L’atto medico-chirurgico, per quanto delicato possa essere, si rivela in questo caso sempre intrusivo e meccanico. Basti solo pensare alle ripetute visite ed esami che precedono l’intervento.
In parte è come se la persona perdesse la sua integrazione con il corpo, l’appropriazione affettiva e psicologica di esso. Questo può portare come conseguenza una scissione molto problematica che era stata in certi casi nel passato frequente in questi genitori: la scissione tra avere un figlio ed al contempo essere madre o padre. Quantunque possa sembrare strano, questi due aspetti non coincidono. Avere-possedere un figlio ha come motivazione elementi narcisistici che poco hanno a che fare con il lento processo per diventare genitore. Ma un’altra scissione si può verificare e complicare tale situazione: la scissione tra essere genitori ed essere coppia coniugale, tra genitorialità e coniugalità.
Il possibile divario tra coniugalità e genitorialità
In certe situazioni la sterilità di coppia è espressione di un profondo rifiuto tra i partners che invece la fecondazione artificiale forza in un ruolo reciproco e in un legame che essi emotivamente rifiutano, ma che per ragioni culturali, sociali o varie si obbligano a mantenere.
La nascita del bambino a questo punto paradossalmente può precipitare la crisi della coppia dato che la presenza reale di un figlio è ben altra cosa delle fantasie che la coppia aveva prima di volerlo concepire a tutti i costi. Così all’onnipotenza e alla strumentalizzazione che avevano portato ad “acquistare il bambino” come si sarebbe potuta acquistare un’autovettura, segue il crollo.
In queste situazioni ci possono essere disconoscimenti della paternità che sono una delle piaghe che accompagnano queste esperienze.
Con le nuove tecniche di fecondazione, che offrono talora la possibilità di avere un figlio “a tutti i costi”, può accadere che lo iato tra avere un figlio ed essere genitore aumenti e il possesso del bambino quando avviene non è accompagnato dal processo di trasformazione dell’identità che consente di diventare genitore. Il possesso del bambino è tra l’altro l’obiettivo cercato a tutti i costi per mostrare di essere come gli altri (come succedeva al marito di Gloria), per combattere quella stessa angoscia di morte personale o di morte della coppia che insieme con l’inibizione a pensare e a simbolizzare hanno prodotto la sterilità come sintomo psicosomatico.
Il bambino costruito a tutti i costi della fecondazione artificiale è a volte cercato per sanare il dissidio insanabile di una coppia che non riesce neppure ad avere rapporti sessuali, come in un caso venuto da me in consultazione dove la mancanza del desiderio di ambedue i partner (prima il marito e poi la moglie) ha portato piuttosto che ad una sana separazione, alla fecondazione artificiale. Ma tutto ciò ha naturalmente prodotto l’effetto tragico, che il bambino nato dopo molti tentativi ha finito per rompere proprio quella coppia che doveva sanare, con l’aggiunta che il padre ha cominciato dopo la nascita un disconoscimento reale (anche se per il momento non legale) della sua paternità.
In più i ripetuti esami e interventi caratteristici di questo iter medico passivizzano la madre, il padre, la coppia e favoriscono ancor di più quella scissione tra il corpo dolorante, oggetto di attenzioni e intromissioni, portatore di problemi spesso sconosciuti e il pensiero e l’affetto che sono collocati altrove, in altro luogo, altro tempo, spesso carichi di sensi di colpa, angosciati per un disturbo misterioso, rabbiosi e pieni di fantasie onnipotenti.
Da qui spesso nasce il bisogno di accanirsi nel trovare un risultato che trova spesso corrispondenza nella complicità con il medico, a cui per lo più viene delegato sia il risultato che la persecutorietà del fallimento.
Tutti questi aspetti che ho descritto alla fine si traducono in gravi disagi che come nel caso di Gloria prima o poi si manifesteranno. Tali disagi possono confluire alla fine in un disturbo dell’identità, in una confusione di essa che si presenteranno nella madre e/o nel padre alla nascita del bambino. E posso ipotizzare che si possa presentare anche nel bambino ripetendo per certi versi quanto ho potuto vedere con ragazzi adottati nell’adozione internazionale. Ragazzi questi che all’inizio dell’adolescenza rivelano dubbi, ansie, problemi a carico della loro identità e che nel migliore dei casi riscoprono l’importanza delle loro radici (geografiche-culturali-linguistiche) nel tentativo di stabilire una continuità tra il passato sconosciuto e il presente che a volte sentono posticcio o estraneo.
Anche perciò nell’adozione internazionale talora si verifica qualcosa di simile.
Per quanto riguarda i genitori adottivi che io ho visto nell’ambito di una supervisione istituzionale con operatori che lavoravano con bambini della Bielorussia, una buona parte di loro oscillava tra il sentire quell’adozione una sorta di scorciatoia che sanava il loro problema, dall’altra alcuni sentivano di essere i salvatori che meritavano profonda gratitudine da parte dei bambini, della società, degli operatori stessi.
In questa particolare situazione, il processo faticoso per fondarsi come genitori veniva dribblato o oscurato.
Nei casi problematici delle adozioni internazionali come in quelli di coppia che hanno effettuato la fecondazione artificiale, può accadere che quando arriva il bambino, il rapporto con la realtà del bambino, diverso nel corpo, nelle abitudini, nella mente, diverso dalla fantasia perché concreto e vivente, precipita spesso la situazione.
A questo punto o il bambino si adatta al genitore oscurando e nascondendo la sua personalità o il bambino può venire rifiutato, rinviato al mittente come un pacco sgradito.
L’elemento di diversità diventa subito un elemento persecutorio che nell’identificazione proiettiva rappresenta l’esternalizzazione della persecuzione interna che questi genitori hanno.
In certo senso dobbiamo considerare che l’equilibrio interno alla persona e alla coppia aveva trasformato la persecuzione, la distruttività e il conflitto nella sterilità, e cioè in un evento psicosomatico,ma tale soluzione data dall’essere sterile aveva costituito in certo senso anche una reazione “sana” dell’organismo. Attraverso questa soluzione la donna, la coppia si era impedita di prendere contatto con contenuti emotivi intollerabili, somatizzandoli, ma aveva anche difeso il possibile nascituro dal nascere a tutti i costi in un ambiente che inconsciamente non lo avrebbe accettato. Le nuove scoperte della medicina e della biologia hanno per certi versi e in certe situazioni forzato la mano impedendo lo svolgersi di questo equilibrio faticosamente formato e permettendo al potere e all’avere di avere la meglio sull’essere.
Conclusioni
Per risolvere i problemi che ci sono posti da queste nuove realtà, dobbiamo cominciare a pensare alle diverse forme di genitorialità, coesistenti nella stessa famiglia. Le esperienze a cui ho fatto riferimento ci costringono a distinguere tra vari tipi di genitorialità: biologica, sociale, legale, del gruppo familiare (per quanto attiene alla trasmissione dell’identità familiare e dei miti familiari), e infine la più importante, quella genitorialità simbolica che colloca il bambino all’interno di una rete di relazioni emotive del genitore e della coppia genitoriale, che lo costituisce al contempo come soggetto-oggetto del desiderio, quello genitoriale e quello proprio.
Mentre le prime tre sono facilmente comprensibili, voglio specificare l’ultima, anche perché sembra essere più significativa. Essa è quella situazione nella quale i genitori si prendono carico della crescita psicologica del figlio investendolo dei contenuti simbolici che qualificano quella filiazione specifica. Questo concetto di genitorialità simbolica può qualificare sia il processo per diventare genitori che si ritrova nelle famiglie più classiche, sia quello che occorre ritrovare nelle famiglie adottive, monoparentali o ricostituite, o anche nella genitorialità di bambini nati dalla fecondazione artificiale.
In questo senso il concetto che io vorrei oggi avanzare di “genitorialità simbolica” mi sembra chiarificare quale è il tipo di relazione che deve intercorrere tra un adulto con funzione genitoriale e un figlio sia esso naturale o adottivo, nato per vie naturali o per inseminazione artificiale. Una genitorialità cioè che trasmette simboli e perciò determina una affiliazione, ma anche consente il generarsi di una capacità simbolica.
Uno dei problemi più rilevanti che oggi esistono nelle coppie genitoriali che hanno avuto un figlio nato per fecondazione artificiale è perciò proprio a carico di questa genitorialità simbolica che nella coppia senza problemi trova nel momento del concepimento naturale uno dei suoi momenti culminanti.
Il rapporto sessuale procreativo tra i partners riunisce in un unico momento il concreto del corpo e l’agito sessuale con il mondo di affetti, rappresentazioni e fantasmi che ognuno si porta con sé e che la coppia ha condiviso.
Questo è una base importante per la genitorialità simbolica, per quel processo cioè con cui il figlio si colloca nella catena generazionale, rappresenta una parte del genitore e al contempo l’elemento estraneo e creativo desiderato e investito grazie proprio all’investimento e al desiderio che lo ha generato.
Laddove questo non avviene, esiste un tassello mancante che va colmato. A volte si colma spontaneamente, altre volte deve essere costruito con la riparazione paziente ed affettuosa nel setting psicoterapeutico.
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